Cosa vuol dire vulnerabilità? E cosa, ancora, essere vulnerabili nella malattia?
Come sempre, l’etimologia può essere illuminante.
Dal dizionario Treccani apprendiamo che l’aggettivo vulnerabile deriva dal latino vulnerabĭlis, derivato di vulnerare: ferire.
Chi è vulnerabile è esposto, scoperto, sensibile, può essere ferito con facilità.
Chi si mostra vulnerabile è debole, fragile, indifeso, incapace di proteggersi, dunque può essere attaccato o danneggiato.
Una persona dal carattere vulnerabile si mortifica, offende o deprime facilmente.
A pensarci bene, la vulnerabilità è legata a due emozioni: alla paura di essere feriti da qualcuno o qualcosa proprio perché troppo fragili; all’ansia di dover fare tutto in proprio potere per proteggere l’unica parte forte, non vulnerabile, di sé.
Ce lo insegna la mitologia classica.
Teti immerge il figlio Achille nel fiume Stige per renderlo invincibile, lo bagna tutto a eccezione del tallone dal quale lo regge. Da quel momento, guarderemo con ansia al tallone che resterà il suo unico punto debole.
Una foglia di tiglio cade sulla spalla di Sigfrido mentre si sta bagnando col sangue del drago Fafnir per diventare imbattibile, tranne che nella parte della spalla coperta dalla foglia. Da quel momento, penseremo con ansia a quella spalla, unica parte del corpo attaccabile.
E se la vulnerabilità fosse colta come un’occasione per mostrare la propria verità, la propria essenza? Per esempio, nella malattia?
Ci ho pensato dopo aver letto un articolo di Laura Zangarini pubblicato su La lettura #601, pagina 7, intitolato “Non temete di mostrare i vostri corpi vulnerabili”.
Nel suo articolo, Zangarini presenta la forte motivazione personale che ha spinto il regista, autore, saggista svizzero Boris Nikitin a indagare la propria intimità per scrivere il monologo autobiografico “Sul morire”.
Il padre di Nikitin soffriva di sclerosi laterale amiotrofica e, nel momento di maggiore sofferenza, ha dichiarato la sua volontà di morire. L’autore è omosessuale, nasconderlo era una sofferenza, e ha fatto coming out. Padre e figlio si sono incontrati in un momento di reciproca vulnerabilità.
Ci vuole forza per mostrarsi deboli
La fragilità è diventata la forza di entrambi che, nel bisogno di accettazione, hanno raggiunto la consapevolezza della propria condizione e la necessità di mostrarsi, semplicemente. Uno spazio intimo in cui osare per essere sé stessi, manifestando pensieri scomodi o divisivi ma veri.
Avere cura dell’altro, in fondo, è questo: cogliere i gesti, gli sguardi, le parole anche solo accennate per aprirsi a un ascolto attivo dei bisogni inespressi per pudore, timore o chissà che altro.
Creare uno spazio di intimità condivisa per accettarsi e accogliere la reciproca vulnerabilità: quella della persona malata che teme per sé, quella della persona che deve accudirla e teme di non essere all’altezza.