Per il terzo appuntamento con la Medicina narrativa, oggi ospito l’intervista alla Dott.ssa Alessandra Cosso, docente alla Fondazione ISTUD e Direttore Generale dell’Osservatorio Nazionale di Storytelling. Vi aspetto nei commenti, buona lettura!
Dott.ssa Cosso, benvenuta su Scrivere di salute e grazie per aver accolto il mio invito. Prima di entrare nel vivo dell’intervista, ci parli della sua professione: cosa significa essere counselor e come si affianca questa figura professionale al mondo della salute?
Il counselor è un professionista con una formazione specifica[1] che affianca le persone in un momento di impasse esistenziale aiutandole ad attivare le proprie risorse interiori per superare il momento di crisi. Conosco counselor che accompagnano pazienti nell’elaborazione di una scelta terapeutica (mi sottopongo a quella cura innovativa o no?) o che sostengono persone – malati e famigliari – nel percorso di fine vita o in caso di malattie degenerative come la SLA. Spesso lavorano in équipe con gli altri professionisti e sono questi i casi di maggiore efficacia nel prendere in carico le persone in modo sinergico e davvero d’aiuto.
Personalmente, occupandomi di dinamiche organizzative, quando lavoro per le organizzazioni sanitarie di solito affianco i professionisti (medici, infermieri, amministrativi e tecnici) per aiutarli a gestire le relazioni con i pazienti e con i colleghi in modo più efficace ed efficiente. Per farlo utilizzo anche tecniche narrative. La mia è anche una scelta di partenza: trovo che nei luoghi di cura spesso i più trascurati siano i professionisti: nessuno si preoccupa di chi cura!
Il linguaggio dei medici, il cosiddetto medicalese, è necessario perché specialistico, ma anche troppo spesso di difficile comprensione. Questo ha delle ripercussioni sul modo di approcciare, conoscere e affrontare la malattia da parte del paziente?
Certamente. Spesso ha un effetto distanziante nella relazione. Il paziente non comprende pienamente – a volte per nulla – quanto il medico sta comunicando e spesso non pone neanche delle domande di chiarimento. Risultato: la malattia rimane qualcosa di sconosciuto, la cura qualcosa con cui non si ha familiarità. I dubbi rimangono e iniziano a creare ansie, che poi possono portare a evitare il problema, dimenticando di prendere i farmaci, di fare gli esami… Insomma si ha il risultato opposto a quanto si ricercava.
Ma la colpa non è tutta del medico. Da qualche secolo la medicina da arte si è trasformata in tecnica. Se Ippocrate definiva come strumenti del mestiere “Il tocco, il rimedio, la parola” oggi puntiamo tutto sul rimedio (il farmaco, l’intervento…), gli aspetti relazionali sono considerati un “di più” non un fondamentale. Conta più essere aggiornati sull’ultima terapia, conoscerne gli esiti degli ultimi studi clinici, padroneggiare quella specifica tecnica chirurgica. Tanto che le Facoltà di Medicina dedicano veramente poco spazio alla competenza relazionale dei futuri dottori. È proprio questo il tipo di intervento che più mi è capitato di fare come counselor nel mondo sanitario: aiutare i professionisti della salute ad acquisire competenze relazionali più efficaci per aiutarli a gestire la comunicazione tra di loro (spesso anche questo è un problema) e con i pazienti.
Secondo lei, quali caratteristiche dovrebbe avere il linguaggio della salute per essere davvero vicino alle esigenze – umane oltre che prettamente mediche – del paziente?
Dovrebbe partire dall’ascolto dell’altro, dell’interlocutore. Il campo di osservazione – e quindi il piano di relazione – del professionista – medico e infermiere – dovrebbe comprendere tutta l’esistenza del paziente e non solo la sua malattia. Ma, come si diceva, l’approccio tecnico alla salute ha prodotto tutt’altro: l’iper-specializzazione, resa necessaria anche dal continuo evolvere delle tecniche terapeutiche e di intervento, ha fatto cadere in disuso quello che una volta si chiamava l’intuito diagnostico, e che era un misto di esperienza, capacità di leggere i segnali deboli che si discostano dagli aspetti indagati dalle check list anamnesiche, capacità di ascolto che significa anche saper fare domande aperte. E avere il tempo per raccoglierne le risposte. Un effetto collaterale di questa evoluzione della medicina è che l’aspettativa dei pazienti si è alzata: se vado dal più grande esperto di questa malattia certamente mi guarirà. Quando non succede, sempre più spesso la delusione è inaccettabile, e scatta la denuncia.
Dott.ssa Cosso, oltre a essere docente alla Fondazione ISTUD e alla Scuola Holden lei è anche Direttore Generale dell’Osservatorio Nazionale di Storytelling. Può darci una definizione di storytelling e chiarire qual è la relazione tra storytelling, racconto e Medicina narrativa?
Storytelling è un termine abusato, ormai se ne parla in ogni contesto e occasione. E si dimentica che in realtà il racconto è la modalità di pensiero e comunicazione “naturale” dell’essere umano, quella che attiviamo nei primi anni di vita con il linguaggio e che utilizzeremo per dare senso all’esperienza e al mondo in cui viviamo. All’Osservatorio sosteniamo che le Scienze della Narrazione sono una categoria di esplorazione, comprensione e relazione con noi stessi, con gli eventi e con gli altri che facilita la ricerca, la costruzione e la definizione di senso.
Lo Storytelling è stato fonte di studi specifici a partire dagli anni Settanta e ha raggiunto il suo apice di riconoscimento negli anni Novanta quando, negli Stati Uniti, è stata dimostrata la sua efficacia nell’ambito delle scienze politiche, economiche e umanistiche.
Infine, la Medicina narrativa (Narrative Based Medicine) è una delle declinazioni più interessanti delle Scienze della narrazione perché impatta su un ambito, quello della malattia, molto sensibile. Il termine è stato coniato da un’epidemiologa inglese, Trisha Greenhalgh, per contrapporsi alla fortuna dell’EBM, ma la cosiddetta medicina “umanistica”, nei cui ambienti nasce la NBM, si sviluppa tra Princeton e la Tavistock Clinic di Londra sin dagli anni 70.
La Medicina narrativa presuppone un’adeguata preparazione degli operatori sanitari. Stando alla sua esperienza, medici e infermieri italiani come si approcciano e rispondono al tema?
La Facoltà di Medicina, così come è strutturata oggi non prepara a sufficienza i medici dal punti di vista della competenza relazionale. Per Scienze infermieristiche va un po’ meglio, ma dipende da facoltà a facoltà. Certamente nella mia esperienza è che c’è un gran bisogno di imparare un modo diverso di gestire la relazione con i pazienti. Sia negli interventi che seguo personalmente sia quando insegno nei Master di Medicina narrativa organizzati da Fondazione Istud incontro grande curiosità e grande fame di apprendere. L’approccio NBM è proprio strutturato sull’ascolto e sulla relazione empatica con il paziente (e con il proprio ruolo professionale). Ma non tutti i professionisti condividono questo approccio e alcuni non apprezzano la NBM, considerandola troppo dispersiva e “poco scientifica” . Naturalmente si tratta di pregiudizi: la NBM sceglie di accogliere e dare dignità alle informazioni sul singolo paziente raccolte dal medico durante la visita. Una visita attenta e “accogliente”, che permetta il racconto – la narrazione appunto – delle diverse fasi attraverso cui la persona sta passando nell’esperienza della malattia. Gli strumenti che il medico utilizza sono l’ascolto e le domande di indagine, e l’attenzione è rivolta non solo al sintomo, ma anche alla percezione della persona.
È chiaro che così compilata, la cartella clinica diventa una sorta di racconto che il medico interpreta e che, insieme agli esami di laboratorio e diagnostici, gli permetterà di fare una diagnosi. La comprensione del contesto narrativo della malattia offre una cornice per affrontare i problemi della persona da un punto di vista olistico e, soprattutto, spesso rivela opzioni diagnostiche e terapeutiche poco evidenti in una visita standard.[2]
Dott.ssa Cosso, è stato un piacere accoglierla qui. Grazie per la sua disponibilità e buon lavoro!
[1]Per diventare Counselor è necessario seguire un percorso specifico di studi dalla durata non inferiore ai 3 anni e non meno di 700 ore di formazione tra Didattica d’aula, Supervisione didattica, un percorso personale oltre al tirocinio obbligatorio. Alla fine di questo percorso si può richiedere a un’associazione professionale – AssoCounseling è tra le più accreditate- un Certificato di competenza professionale dei servizi ai sensi della legge n.4 del 14 gennaio 2013 (Disposizioni in materia di professioni non organizzate).
[2]Tratto da Cosso A. (2008) “Dare i numeri o raccontare storie?”, dall’intervista a M. Marini. In Lucchini (a cura di) Il Linguaggio della salute, Sperling e Kupfer.
Alessandra Cosso, note biografiche
alessandra.cosso@storytellinglab.org
Advanced Professional Counselor, Executive coach e giornalista professionista, è consulente d’impresa ed esperta di narrazione e comportamento organizzativi. Come Executive counselor, trainer e coach usa un approccio multidisciplinare che integra strumenti di storytelling ad altre metodologie per intervenire sul clima e sulla cultura organizzativa e favorire l’esplorazione e costruzione identitaria (individuale, di gruppo e organizzativa) . È nella Faculty di Fondazione Istud e di Scuola Holden. È direttore dell’Osservatorio italiano di Storytelling dell’Università di Pavia e vice direttore della Rivista Italiana Counseling. Ha al suo attivo varie pubblicazioni tra cui il libro Raccontarsela, nella collana Storyline.
Pubblicazioni
Cosso A: Il counseling come stimolo e facilitazione nei cambiamenti di cultura organizzativa, Atti del V convegno Assocounseling, ottobre 2014.
Cosso A: Capire i copioni, cambiare i destini, Rivista Italiana Counseling, I , marzo 2014.
Cosso A, Raccontarsela, copioni di vita e storie organizzative, la narrazione per lo sviluppo individuale e di impresa, Lupetti, 2013.
Cosso A, La storia siamo noi – Life script storytelling – uno strumento di indagine e intervento sui copioni di vita, atti del I convegno nazionale delle associazioni italiane di Analisi Transazionale, Roma febbraio 2012.
Cosso A, Duccoli D, L’ascolto e l’aiuto: la medicina narrativa in aiuto di chi cura, in Medicina narrativa per una sanità sostenibile, Collana Fondazione Istud/Lupetti 2012.
Cosso A, Fondazione Istud , autobiografia nel 40nnale, Stresa 2011.
Cosso A, Scrivimi di te, Atti delle giornate AIAT 2010, Torino.
Cosso A., Castelli N., Fucci S., La narrazione come strumento di ascolto e sostegno per i professionisti della cura, poster at Narrative Medicine and Rare Diseases Meeting – Roma , 2009.
Cosso A, “Un momento per favore” e “Dare i numeri o raccontare storie” ne AA VV, a cura di A. Lucchini, Il linguaggio della salute, Sperling & Kupfer 2008.
Cosso A., Nastri A., Metodologia in The Beyond Code, un’autobiografia di BSI, Milano, Collana Management Sole 24 Ore, 2008.
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