Dopo la lezione di Qi qong, ieri sono tornata a casa serena e soddisfatta, così mi sono abbandonata in poltrona e, in un attimo, sono stata catturata dal dialogo tra l’illustre oncologo Prof. Umberto Veronesi e il noto teologo Vito Mancuso. I due si sono confrontati sull’interpretazione laica e religiosa del male. Riportare in questo contesto il dibattito tra Mancuso e Veronesi sarebbe estremamente riduttivo oltre che inappropriato, però voglio condividere una riflessione riguardante due parole della salute o, meglio, della sua assenza: dolore e sofferenza.
Spronato dalle domande di Fabio Fazio, Umberto Veronesi ha dichiarato che la sua visione laica della malattia, e della vita, deriva molto probabilmente dalla vicinanza con il male inteso sia come mancanza di bene – “Lo diceva Agostino: malo privatio benis” – che come assenza di buona salute. Dopo aver vissuto la guerra, all’inizio della sua carriera il Prof. Veronesi si è subito imbattuto nel cancro, il male per antonomasia che coinvolge la persona nella sua totalità di fisico, psiche e spirito. La quotidianità con il male ha portato a maturare una distinzione tra sofferenza e dolore tanto che, a più riprese, l’ha sottolineato nel suo racconto denso di ricordi.
Dolore e sofferenza: quali differenze?
Il dolore è fisico. Se ci si rompe un braccio o si subisce un trauma materiale, il corpo riporta dolore.
La sofferenza è intima, privata, è il sentire che genera empatia ed è propriamente correlata alla malattia.
Il dolore è la risposta naturale a un trauma esterno, può prescindere da una patologia. Anche una caduta, un taglio, un incidente provocano dolore.
La sofferenza trascende la malattia ed esiste al di là del dolore.
Il dolore è circoscritto alla reazione fisica che è temporanea.
La sofferenza è legata a una situazione protratta nel tempo, come quella di una malattia cronica che, a lungo andare, costringe la persona a ripensare la sua vita in ogni aspetto.
Con un volo semantico e pindarico, questa riflessione nata ascoltando Veronesi, mi ha fatto ripensare a un capitolo di Cliente, paziente, persona. Il senso delle parole in sanità, quello intitolato Privacy, intimità, pudore. Forse perché la sofferenza, molto più che il dolore, spinge l’assistito e il medico a definire un rapporto che non è solo finalizzato alla terapia medica, ma che si basi su presupposti di comprensione, empatia e rispetto di chi vive nella condizione di malattia. Il senso di questo intenso capitoletto [pagg. 22-33] è racchiuso nel virgolettato che lo introduce:
Vi è un tipo di intimità terapeutica che va oltre la fisicità. La capacità di stabilire un rapporto con il paziente, che ne percepisca la potenziale non occasionalità, che sappia esprimere la capacità di riconoscere ansie e di assorbirne la paura.
Se ve la siete persa e volete vederla, rimando all’intervista di Fabio Fazio a Umberto Veronesi e Vito Mancuso, comincia al minuto 18:30. Buona visione!